Cremona Musica

Al chiaro di luna nella piccola città

Tanta Robba Festival, 06-07-08/07/2023

Non ci sono voluti molti anni, al cremonese Tanta Robba Festival, per imporsi tra i più importanti appuntamenti musicali giovanili estivi della penisola. La settima edizione ha confermato quanto di buono si era apprezzato negli anni precedenti, limando la propria struttura qua e là per ottenere una proposta sempre ricca e diversificata, ma meno intasata e forse più fruibile nel complesso. Certo, mi sarebbe comunque servito almeno un replicante per poter seguire tutti i live e i dj set, e il progresso tecnologico renderebbe semplice – a cose fatte – recuperare ampio materiale audio, video e fotografico e quindi raccontare anche ciò che non ho vis(su)to in prima persona. Ma la trovo una prospettiva insensata. Nelle presenti righe, dunque, si può leggere solo la mia visione parziale dell’accaduto, dove parziale è proprio da intendersi in senso letterale. Ho preferito di volta in volta il Main Stage o il TR Factory Stage, tra i quali si è riproposta una consolidata formula: su uno, gli ospiti – per dirla semplice – famosi (italiani e internazionali); sull’altro, una selezione più di nicchia, indipendente, emergente, a tratti alternativa, quando non addirittura underground; oppure, in altri frangenti, dedita al puro e semplice svago e al divertimento più chiassoso.
È quindi con spirito curioso e pronto ad assorbire di tutto che mi approccio al Festival, che si svolge al Parco Lungo Po Europa. Come di consueto, l’offerta musicale catalizza in toto la mia attenzione, ma l’imponente allestimento prevede diverse situazioni, da una grande area dedicata ai banchetti – con vestiti, oggettistica e altro – a uno spazio altrettanto ampio con cibi e beveraggi vari. Con coerenza che sfocia nel monotematico, per tutti e tre i giorni mi sfamo da Beamy, un marchio appena lanciato, che propone prodotti al 100% plant based. Tra giovedì, venerdì e sabato riesco a provare proprio tutto il menù disponibile, rimanendo piacevolmente soddisfatto e felice di sostenere un progetto gastronomico che non prevede lo sfruttamento degli animali.

Giovedì 6 luglio
Strano a dirsi ma è così, la tabella prevede che le luci si accendano per prime sul Main Stage. Con puntualità, alle 21:00, mi piazzo sotto il palco per Lil Kvneki And The American Boyfriends. Lo smilzo ventenne romano, che continua a ravviarsi i capelli che gli cadono sugli occhi, mi dice qualcosa… Ma sì, è uno dei due titolari del progetto Psicologi, una posse alternative rap e trap di liceali che fece un bel po’ di casino – davanti a un pubblico altrettanto giovane – proprio sullo stesso palco, al Tanta Robba del 2019. La svolta solista del nostro amico ha preso una direzione curiosa, cioè l’indie rock dei primi anni Duemila, il che è per me davvero interessante: in pratica, Lil Kvneki, classe 2001, adesso si rifà in modo palese – anche nella chioma spettinata – a Julian Casablancas e ai newyorkesi The Strokes, che spaccarono tutto con il loro esordio Is This It nello stesso anno in cui Lil Kvneki nasceva. Nella sua percezione, stiamo parlando di qualcosa di molto in là nel tempo a cui ispirarsi (mi aiuto con una proporzione, pensando a dischi, film e avvenimenti del 1982, mio anno di nascita). Non è malvagia, la musica, ma al contempo non ci vado matto: l’attitudine sembra un po’ costruita, deliziosa nel suo mostrarsi nerd e perdente, un po’ immalinconita nei sentimenti eccetera. Devo dire che i musicisti si difendono bene. In particolare, è il batterista a rafforzare la sensazione à la The Strokes dell’insieme: una canzone, Regolare, ha un andamento ritmico identico a Someday. Ce n’è un’altra, Solo Come Un Cane, con la chitarra che strimpella come su You Only Live Once. Può darsi che il contesto fin troppo grande non sia il più adeguato; magari, lo stesso concerto in un piccolo localino valorizzerebbe in maggior misura la performance. Infine, confermo a me stesso di avere un serio problema con la pronuncia strascicata che spadroneggia ovunque nel pop italiano contemporaneo, ma amen.

Mi sposto con agio al TR Factory Stage: pochi minuti dopo, ha inizio il set di Elena Piro, altra giovanissima artista, calabrese trapiantata a Bologna, che subito si candida per il premio di concerto più carino dei tre giorni. La ragazza ha una scrittura abbastanza convincente, ma soprattutto ha una bella vocalità, potente ed espressiva, assoluta protagonista rispetto al ruolo di semplice accompagnamento a cui è deputata la chitarra acustica. Mi restano in mente alcune melodie e versi dei brani, il che – ovvio – è un buon segno, e anche in questo caso credo che rivedere Elena in un luogo raccolto potrebbe rendere più efficace il messaggio della brava cantautrice e l’impressione generale del suo live.

Torno svelto al Main Stage per garantirmi un posto davanti per l’imperdibile act internazionale di questa edizione: a fare solitario ingresso sul palco è l’australiano Xavier Rudd, musicista, surfista, vegetariano, attivista per l’ambiente e per i diritti del popolo aborigeno e chissà quante altre cose. Il sorridente, biondo, muscoloso, abbronzato e scalzo Xavier – vengo a sapere già nel pomeriggio – ha saltato a piè pari il soundcheck, preferendo non rinunciare al suo allenamento quotidiano. Niente di male, s’intende, anche per la bravura dei fonici e della squadra tecnica di Acid Studio, impegnata a occuparsi di un musicista solista che sul palco richiede una backline analoga a quella di un intero gruppo. Rudd suona di tutto ed è molto più di una one man band, bensì un vero polistrumentista: passa con scioltezza dalla slide guitar al didjeridu, dall’armonica a bocca a un imponente set di batteria e percussioni, cantando al tempo stesso. I momenti toccanti del corposo concerto sono parecchi: senza dubbio, una hit mondiale come Follow The Sun è l’episodio che più entusiasma il pubblico generalista; d’altro canto, la splendida Spirit Bird coinvolge l’audience in un lungo e sentitissimo coro. È da sottolineare una bella presenza di fan di vecchia data: persone che partecipano dal primo all’ultimo minuto delle poco meno di due ore di esibizione, alzando le braccia al cielo stellato della notte cremonese – quasi fresca, in riva al Po – e raccogliendo l’energia che proviene dalla musica e dal pianeta.

Xavier non è del tutto solo, sul palco: in brevi e precise circostanze ospita Fred Leone, che – nelle parole dello stesso Rudd – è una delle principali figure viventi per la preservazione e la diffusione della cultura aborigena. Leone si presenta prima nella classica veste tribale, pittura corporale inclusa, e porta con sé due grossi boomerang (che, bontà sua, non farà volare); in un secondo momento, in abiti occidentali, è impegnato come rapper; infine, durante una delle torrenziali sessioni di Xavier alle percussioni, è chiamato a sventolare la grande bandiera aborigena (sempre presente sul palco), un sole giallo in campo rosso – come la terra australiana – e nero – come la pelle di chi rappresenta. È una rivendicazione d’identità e di lotta per i diritti umani, e in questo senso Xavier – all’interno del suo pezzo reggae Ball And Chain – si appropria delle parole e della musica di Bob Marley nei versi centrali di Get Up, Stand Up (una canzone di mezzo secolo fa, una canzone di cui abbiamo ancora bisogno). Il concerto scivola così tra tante emozioni e nessuna sbavatura, attraversando decenni di musica popolare – rock e rap, etnica ed elettronica, folk e reggae – e filtrando il tutto attraverso una sensibilità hippy, pacifista e fricchettona che appare sincera e che mi ricorda il Ben Harper più impegnato o la carriera solista di Eddie Vedder. Un tipo in gamba, Rudd, anche fuori dal palco, vista la mezz’ora buona con cui, nel tardo pomeriggio, s’intrattiene con Zova e Giulio, dello staff organizzatore, che gli raccontano il legame speciale che Gli Amici di Robi hanno con la sua Australia. Mentre regalo a Claudia la maglietta con la copertina di Jan Juc Moon, nuovo e decimo album intitolato alla piccola località in cui Xavier è cresciuto, ripenso al concerto e nella mente lo colloco a svettare in alto – se non dritto in cima – tra i più intensi e significativi della giovane storia del Tanta Robba. Complimenti a tutte e tutti per averlo portato a Cremona!

In contemporanea, sul TR Factory Stage, si svolgono i live del rapper Rumo e del combo dance pop Telemagenta. Quando mi dirigo lì, c’è una bolgia esagerata pronta per Il Pagante, progetto nato a inizio anni Dieci come pagina Facebook e ora di grande successo su Instagram (181˙000 follower) e su Spotify, con i suoi 1˙200˙183 ascoltatori mensili nel momento in cui scrivo. Assisto all’esibizione (una quarantina di minuti circa) dall’inizio alla fine. Eddy Veerus, cioè il tipo con il microfono, si chiama Edoardo Cremona (è nipote del comico e illusionista Raul Cremona). Il cognome all’anagrafe lo rivela lui dal palco, mentre gli scappa la doverosa battuta sul fatto che si sta esibendo nella nostra città. La tipa con il microfono è nota come Brancar, al secolo Roberta Branchini. Hanno collezionato una ventina abbondante di singoli, parecchi dei quali Disco d’Oro o di Platino.
È andata così.
Non mi fermo per i dj set di Balera Favela sul Main Stage né di Kharfi sul TR Factory Stage: lascio il campo a chi vuole fare le ore piccole e vado a riposare, in vista di un venerdì che si preannuncia succoso.

Venerdì 7 luglio
La seconda giornata del Tanta Robba ha di nuovo inizio sul Main Stage, con l’Evento Ballroom del Cremona Pride. Si prosegue con la cantante Epoque: italiana di genitori congolesi, Janine Tshela Nzua – cresciuta tra Torino, Parigi e Bruxelles e rientrata in Italia – porta le proprie radici nella sua musica, tra hip hop e afrobeat. Si può parlare di afrotrap? Può essere. Dopo di lei si esibisce VillaBanks, uno dei pezzi grossi della nuova scena trap italica. Il piatto forte – su cui si registra uno dei picchi di pubblico – è il successivo concerto di Rosa Chemical, che si sta godendo un’estate sulla cresta dell’onda dopo l’avventura sanremese con il brano Made In Italy e le polemiche (non solo musicali) annesse. In chiusura è il turno del Disco Pianobar, un after show tra dj set e karaoke. Scrivo ciò per la cronaca: in realtà, passo tutta la serata solo ed esclusivamente in prima fila al TR Factory Stage.
La performance inaugurale è quella di Simo Veludo, rapper e cantautore. Gli presto la dovuta attenzione, ma non mi dice niente, né per quanto riguarda la musica (che esce quasi tutta in base, chitarra acustica a parte), né dal punto di vista dei testi. Non ho niente contro il giovane musicista torinese e, in una certa dose, l’egocentrismo mi piace. Tuttavia, consiglierei a Simo maggiore sobrietà nella scelta dei visual: le riprese televisive di Rai 2 della finale di Castrocaro 2021 – che ha visto il nostro uomo trionfare tra gli inediti, con una canzone dal titolo irricevibile – sono troppo. E quando Simo racconta che con quella canzone ha vinto e che bisogna credere nelle proprie possibilità, il concetto è già molto più che chiaro alle persone presenti, che si sono viste le immagini in loop alle sue spalle per tutto il concerto. Fossi il suo tour manager gli direi che, dalla prossima volta, un bel logo fisso con il suo nome sarà più che bastevole. Verso la fine del live, trova spazio anche una cover di California, ballatona dei Phantom Planet che vent’anni or sono fu la sigla della serie tv – ma ai tempi si sarebbe detto serial, se non proprio telefilm – The OC (non ho di che strapparmi i capelli per la scelta del brano).

Dal secondo act in poi, però, mi piace tutto: gli Elettrotape sono una formazione italiana con una cantante viennese e si muovono tra dream pop ed elettronica, non disdegnando ritmi sostenuti e, per contro, suggerendo atmosfere rarefatte in determinati passaggi. Mi sembrano la versione attuale di un gruppo shoegaze degli anni Novanta costretto a impasticcarsi con robaccia eccitante, tanto da spostare progressivamente l’asticella verso un energico rock a base di sintetizzatori. Mi convincono in particolare il tastierista Daniele Volcan – capellone e baffuto, indossa un pellicciotto rosso sgargiante sul torso nudo e si agita non poco mentre suona – e la voce di Annika Prey, il cui accento austriaco fa capolino, timido, nel cantato anglofono. Giacomo Barchetta suona un curioso Chapman Stick (di base, uno strumento acustico a dodici corde. Alice ne cerca il nome online in diretta) riconvertito a ennesimo synth, e spesso lo fa in tapping, tenendo entrambe le mani sul manico. Il recente singolo Wrong Question mi sembra del tutto rappresentativo del sound della band, per me promossa in modo deciso; ma, al di là dell’ascolto consigliato, la mia raccomandazione è proprio quella di andare a vedere dal vivo gli Elettrotape, alla prima occasione. Sapranno mantenere le aspettative di giudici più esigenti di me, che sono una nota manica larga.

Mutonia. Basta il nome a farmi compiere un salto indietro nel tempo e in là nello spazio. Mutonia è la pazzesca comune cyberpunk insediatasi ormai oltre trent’anni fa a Santarcangelo di Romagna: anche se i Mutonia, intesi come la band, in un’intervista in cui m’imbatto sul web, spiegano che il proprio nome fa riferimento al concetto di cambiare forma ma non essenza, mi piace pensare che di mezzo ci sia anche un omaggio alla pacifica comunità di cui sopra. Non per snobismo, ma – guardando di rado la tv – non avevo idea che il power trio, attivo dal 2009, fosse passato anche da X Factor, conquistandosi la stima di Manuel Agnelli. Una nota di colore: il gruppo proviene dalla provincia di Frosinone, per l’esattezza da Ceprano, per la gioia di Mattia, cepranese trapiantato a Cremona, che si gusta il concerto dei suoi compaesani dal lato del palco. E che concerto! La band dimostra che la grande scena dell’alternative rock italiano degli anni Novanta è stata qualcosa di importante e formativo per almeno una generazione successiva di musicisti e amanti del rock. Già il logo del gruppo, uno smiley rovesciato a testa in giù, tradisce un debito verso l’onda lunga del grunge e del rock sotterraneo più aspro e sanguigno, che ha caratterizzato quel decennio in primis e che non si è mai più spenta, conoscendo semmai periodi più o meno floridi, più o meno ispirati. L’ultimo decennio del secolo scorso continua a dare prova di aver tracciato un solco profondo. Capelli lunghi, tatuaggi a profusione, distorsioni pesanti e voce rauca che declama testi incazzosi: non posso chiedere di meglio al concerto di un gruppo che mi era ignoto e che mi trova, alla fine della suonata, del tutto favorevole. Dal palco, il leader, cantante e chitarrista Matteo De Prosperis scherza, battezzandomi nuovo membro della band, poiché rispondo presente alla chiamata a cantare il coro di un brano. Dopo il live, nel backstage, mi faccio riconoscere e il sodalizio trova conferma: a breve faccio le valigie e parto in tour con i ragazzi. 🙃

Tornando serio: se mi trovo in transenna dall’inizio della giornata è perché voglio assolutamente essere sotto il palco per il mio idolo Lucio Corsi, che è in giro con la sua band per il tour del nuovo, stupendo album La Gente Che Sogna. Al memorabile concerto del cantautore e glam rocker maremmano ho deciso di dedicare un reportage a sé stante.

Dopodiché, il palco è di Paolo Baldini DubFiles, cioè il dj set (ma mi verrebbe da definirlo sound system, per quanto è massiccio) dell’importante produttore dub e reggae pordenonese, già negli Africa Unite. È impressionante la cofana di dreadlocks che Baldini porta sulla testa: a quanto pare, sono 33 anni che non taglia i capelli, che assomigliano a una mezza dozzina di grossi rami di un albero caraibico. Il suo set, che si protrae – come da programma – fino alle 03:00 di notte, raccoglie un bel numero di gambe danzanti sotto le casse, felici di fare il pieno di ritmi in levare e di basse frequenze. Finalmente anche Cecco, uno dei custodi del TR Factory Stage, può rilassarsi e ballare a occhi chiusi. Si chiude, benissimo, il day 2.

Sabato 8 luglio
«È la nuova Avril Lavigne», sintetizza Bazoo per darmi un’idea di come suona Namida, opening act del TR Factory Stage alle consuete 21:00. A onor del vero, il palco era già stato impegnato tra le 19:30 e le 20:30 dal cremonese Guido Damini, storyteller e scrittore di podcast per Radio Deejay, impegnato in una lezione di storia ad alto tasso di cazzeggio e umorismo. Non sono però arrivato in tempo per toccare con mano la materia trattata. Per tornare al concerto imminente, se Bazoo, il king assoluto del pop punk cittadino tra anni Novanta e Duemila, mi consiglia una giovane portabandiera del genere, chi sono io per glissare? Forza, sotto il palco. Le lunghissime treccine rosa di Namida tracciano curve colorate, o piuttosto colorite, come certe sue canzoni, da Carta, Forbice, Sesso – meno giocosa di quanto si potrebbe supporre dal titolo: in realtà si parla di una relazione tossica – alla generazionale Estate Di Merda, passando per la potenziale hit Figli Dei Fuori, che la cantautrice classe 2000 introduce adottando un parallelismo woodstockiano. È davvero decisa a farsi sentire, Namida: e nonostante si faccia sentire anche una scrittura un po’ acerba, va bene così. Inoltre, la ventitreenne dalla provincia rodigina mi è simpatica perché mi fa venire in mente, appunto, Avril, idolo dell’infanzia e dell’adolescenza di mia sorella Mary. Non pervenuta, quindi, nella mia esperienza, la performance dell’ancor più giovane Ele A, da Lugano, che, a quanto sembra, si dedica al rap vecchia scuola (avercene…) e che suona in perfetta simultanea sul Main Stage.

Ed è proprio al Main Stage che mi dirigo – in transenna, perché no? – per ricevere la principale e più gradita sorpresa della tre giorni. Non conoscevo i Savana Funk e avevo dato uno sguardo sommario alle foto promozionali del trio. Quando prendono posizione a fronte palco, non è necessario che suonino una nota e già mi stanno piacendo: capelloni, vestono camicie dalle fantasie africane e soprattutto hanno con sé gli strumenti della sacra triade del rock: chitarra, basso e batteria, in veste strumentale. Il chitarrista Aldo Betto, trevigiano di Vittorio Veneto spostatosi a Bologna, è la persona più clamorosamente felice di suonare che mi sia capitato di vedere da qualche anno a questa parte: sorriso a trentadue denti dal primo all’ultimo secondo, coinvolge la folla, alza al cielo le corna del rock’n’roll, ringrazia di cuore in continuazione. Insomma, è un grande. Ah, già, piccolo dettaglio: suona da paura, con un vibe hendrixiano che contiene rock, blues, funk e soul e si innesta alla perfezione sulla devastante sezione ritmica. Blake C.S. Franchetto è il bassista, di natali londinesi e origini italoghanesi: a parte avere quel tocco, quello che distingue i bassisti di alto livello, ha la grandiosa sfacciataggine di andare sul palco con la barba rasata solo sulla metà destra del volto. Completa il power trio il fenomenale Youssef Ait Bouazza, batterista berbero romagnolo: dopo cinque minuti, ha già addosso solo pantaloncini e infradito. Suona con una classe e un tiro invidiabili! Precisissimo, valorizza ogni colpo, dipinge scenari batteristici fantasiosi, tradotto: spacca alquanto. Non è necessario menzionare questa o quell’altra canzone: ogni tassello compone un mosaico variopinto, che non so (ancora) come risulti su disco, ma che dal vivo è travolgente. Correte a vedere i Savana Funk, il cui nome è una dichiarazione programmatica e il cui sound coeso va oltre la semplice idea di contaminazione. Spettacolari! Dopo un sacrosanto bis, al momento di concludere davvero, la band è sommersa dagli applausi e vedo Aldo Betto stritolare in un abbraccio Allo, che – da direttore artistico – si gode gran parte delle esibizioni dal lato del palco.

Come ovvio, non assisto ai live che si tengono in contemporanea sul TR Factory Stage: Sakküra è un trapper di Terracina che – come il nome d’arte lascia intendere – prova una fascinazione per il mondo degli anime giapponesi e a quelli si ispira per i suoi brani. Me lo spiega Janfree, responsabile del TR Factory Stage, che al contempo m’incalza su Namida, di cui è entusiasta: «Hai sentito che roba? Ventitré anni!», insiste. L’altro concerto che non vedo è quello di Kassie Afò, progetto solista di Giulio Tosatti, percussionista laureato in Conservatorio e produttore, che spazia tra pop, electro e influenze latine e afrocubane.
Decido di rimanere sul palco grande: sull’altro, alla stessa ora, è il turno del cantautore folk punk rock iperrealista Il Re Tarantola, che suona spesso da queste parti (è della provincia bresciana) e posso ribeccare in futuro senza difficoltà. Ma il posto acquisito in prima fila sul Main Stage è comodo e la pietanza che sta per essere servita è tra le più succulente del Tanta Robba. Davanti a una folla record di varie migliaia di teste, comincia il concerto del collettivo Nu Genea. Definisco il gruppo un collettivo perché in realtà, in studio, Nu Genea è un progetto a due: ne sono fondatori Massimo Di Lena e Lucio Aquilina, napoletani di stanza a Berlino. Anche nel loro caso, non ho ascoltato i loro album né gli ep, ma è la Live Band che, appena attacca, appare irresistibile. Sul palco, la formazione a otto elementi (anche nove, quando si aggiunge il tunisino Ziad Trabelsi, che canta e suona il suo splendido ʿūd, una sorta di progenitore arabo del nostro liuto) ci fa subito calare nello spirito di una Napoli – e, per estensione, di un Mediterraneo – come luoghi di incontro, di mescolanza di culture, stili, influenze, ma con un impianto musicale rigoroso e vigoroso, che evita ai Nu Genea di incorrere in qualsivoglia pericolo di sbraco nella retorica stantia del Sud tutto genio e sregolatezza. Al contrario, la quadratissima impronta funk e disco che caratterizza gran parte dei brani li rende non solo divertenti e ballabili, ma dannatamente ficcanti anche a un ascolto più attento. Sono dei compositori eccezionali, Di Lena e Aquilina, e sono eccezionali la cantante Fabiana Martone e i musicisti che li accompagnano. Per certi versi, alcuni brani mi ricordano quel tipo di pezzoni, sintetici ma anche caldi, stratificati ma anche orecchiabili, che sarebbero potuti finire a fare da colonna sonora a qualche rotocalco sportivo della Rai dei tardi anni Settanta o primi Ottanta; non so se riesco a spiegarmi, ma credo che a Pino Daniele ’sta roba sarebbe piaciuta, come piacerebbe a James Senese. Non per caso né per fortuna i Nu Genea hanno collaborato con il compianto Tony Allen, leggendario batterista di Fela Kuti. Con merito, la band ha un ampio e affezionato seguito di fan: tantissime persone sono lì proprio per loro, non genericamente per il Festival, ed è chiaro dalla potenza della grande voce collettiva (di nuovo) e dei battiti di mani sincronizzati che si levano senza soluzione di continuità dalla vasta area antistante al Main Stage. Il concerto è un viaggio unico, di un’ora e venti circa, che si può apprezzare a più livelli: ballando allo sfinimento da un lato, apprezzando appieno ogni sfumatura musicale dall’altro, oppure destreggiandosi tra i due poli, lasciandosi andare di tanto in tanto, per poi tornare a una fruizione più concentrata. «Guagliù! Benvenuti al Bar Mediterraneo!», esclama Massimo, invitandoci a unirci alle danze sulla title track del loro album più recente, e non ci sono discussioni: il gruppo headliner del sabato del Tanta Robba Festival 2023 riesce a coniugare successo di pubblico e di critica, divertendo e divertendosi. Laurea con lode e bacio accademico!

Tra il leggero ritardo con cui finisce il concerto, due chiacchiere con amici da fuori città che incrocio vagando per il Festival, la coda per una birretta e il bruciante desiderio di non scoprire mai nella vita che cosa offra il dj set dal nome Ciao! Discoteca Italiana, mi sposto sul TR Factory Stage quando si è già concluso il bordello per Auroro Borealo, che d’altra parte non credo si sia discostato granché da quello già visto al Tanta Robba 2019, all’allora denominato Aquarius Stage. Al banchetto del merch noto la maglietta verde di Trentenni Pelati, che mi fa ridere per il logo fregato a quello delle Tartarughe Ninja; per il resto, non dubito dell’orgia di stage diving e ignoranza che si sarà scatenata, anche se tengo a specificare che Auroro Borealo fa il cretinetti, ma non lo è affatto. Avendo già invaso il palco del Disco Pianobar la sera prima, nulla impedisce ad Auroro di concedersi la doppietta e andare a disturbare anche Sibode DJ, attesissimo after show conclusivo del Tanta Robba. È un altro ritorno e ad ancor più stretto giro, quello di Sibode, che era stato qui lo scorso anno. Rieccolo, allora, assieme alla grandissima figurante Kimberly (conosciuta anche come Troppo Kimberly). Quest’ultima – mi racconta Pettinatafromolza – è appena stata motivatrice special guest della Popolarissima della Balorda, una folle corsa ciclistica goliardica e non competitiva (di più: antiagonistica) che si tiene in una frazione di Carpi e a cui partecipa sempre la nostra cremonapalloziana Jusbiland. Sibode DJ è un altro che sembra un minchia, ma in realtà sa benissimo che cosa sta facendo e come intrattenere. Finge di essere disturbato dal brusio tra una canzone e l’altra: «Silenzio, per favore. Sto lavorando». Si serve a ripetizione della tecnica del callback – che di norma ha più a che fare con gli spettacoli comici che con i concerti – e cioè riprende all’improvviso, e ad alto volume, il ritornello di una canzone che era già finita qualche minuto prima. La cosa è divertente, è innegabile.

Ci sono alcuni fattori che passano sotto silenzio e che invece rendono lo show valevole: uno di questi è la voce di Sibode, che – quando decide di cantare sul serio – dimostra di possedere carica, intonazione e una nota graffiante che me lo fa piazzare dalle parti del grunge. Ma sprazzi del genere sono rari e annegano nel marasma di coglionate e basi techno. Non sono così fan da sapere se il tormentone che fa «Qui ce n’è di roba / C’è tanta tanta roba» sia la rivisitazione di un brano preesistente o se sia composto ad hoc in omaggio al Festival: sta di fatto che il pogo generato è selvaggio, anche grazie al sapiente uso che Sibode fa della sempiterna rivalità tra Cremona e Crema. Eppure, il concerto non riesce a (cioè, non vuole) essere stupido fino in fondo. Da un lato, rido sempre quando tra i visual appare la semplice e gigantesca scritta culo; dall’altro, l’apice emotivo (e lo scrivo senza ironia) giunge nel finale, con la canzone Non Lo So, quando il refrain «Mi piace stare insieme a te / Mi piace stare anche da solo / Mi piace stare non lo so» viene ripetuto ad libitum e si crea quella magia unica che deriva da tanti esseri umani che cantano in coro, anche molto dopo che la musica è finita. Sibode e Kimberly si lanciano in un lungo crowd surfing sulle nostre teste: quando Kimberly mi passa sopra, sto attentissimo a sostenerla per le braccia, poi per la schiena, evitando accuratamente di toccarle il culo e afferrandole i polpacci. Mi piace pensare che l’umanità presente si sia comportata allo stesso modo, ma solo Kimberly in persona, interrogata in merito, potrebbe dirlo. Del corpo di Sibode non m’importa nulla: reifichiamolo quanto ci pare! Quando si chiude in maniera ufficiale, è evidente dai sorrisi – sopra e sotto il palco – che la felicità esiste.

E arriva il momento dell’ultimo chupito alla Melunera, la piccola oasi del Tanta Robba Festival che aggiorna il concetto di tirare tardi. La tre giorni è volata, come sempre, con un numero di presenze totali che si attesta di sicuro sulle cinque cifre. Per quanto mi riguarda, posso dirmi sazio: la sola cosa che – secondo me – si potrebbe aggiungere è un momento, anche breve, in cui un paio di portavoce de Gli Amici di Robi o della Società Cooperativa Sociale Tanta Robba Events – che, con La Valigetta, organizzano il Festival – parlino dal Main Stage. Non penso a chissà quale discorso: anche solo un breve saluto mi piacerebbe. È pur vero, mi scrive a giochi fatti Meda, che molte persone dello staff – quest’anno in t-shirt rosa – si sono fatte vedere sul Main Stage durante Disco Pianobar, cantando e ballando e facendo festa assieme al pubblico.
Come avevo scritto (non su Cremonapalloza) anni fa, basta parafrasare il nome: il Tanta Robba è una Grande Cosa. E allora teniamocelo stretto, qui, nella piccola città.

P.S.: un ringraziamento speciale alla Paolina, Presidentissima di Tanta Robba Events.

Riguardo l' autore

McA

Si registra sul Forum di Cremonapalloza in data 01/02/03 senza farlo apposta e senza sapere che quel momento costituirà davvero un nuovo «Via!» della sua vita.
Nel 2006 è tra i fondatori dell’Associazione Cremonapalloza, di cui ricopre da sempre il ruolo di Segretario.
Ama il cinema, il rock e la Cultura in generale.

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