Cinema Recensione Cinematografica

Kill Bill Volume 1

Kill Bill Volume 1

Kill Bill Volume 1

Kill Bill Volume 1 è un capolavoro.
Quello che viene pubblicamente sbandierato (nella locandina, nel trailer e anche nei titoli di testa) come «Il quarto film di Quentin Tarantino» è in realtà un “doppio 4º film e ¼”, suggestione felliniana (o abrahamszuckeriana nei seguiti di Una pallottola spuntata?) in realtà facilmente spiegabile dando uno sguardo alla filmografia di Q (come Tarantino si firma, in compagnia di U – Uma Thurman –, come autore della storia La Sposa, ideata, a detta dei due, a Cannes, quasi dieci anni fa, ai tempi di Pulp Fiction). Dopo l’esordio shock con Le iene (1992), Q realizza in sequenza: Pulp Fiction (1994), film che entra nella leggenda poco dopo l’uscita; il quarto e ultimo (e migliore) episodio di Four Rooms (1995), un unico, fantasmagorico, piano-sequenza; Jackie Brown (1997), la blaxploitation anni ’70 rivisitata tre anni prima del 2000; Kill Bill, doppio film, tre anni dopo il 2000.
Cercherò di non parlare di cose che già potete leggere in una qualunque recensione (brevissimo sunto: summa di generi del b-movie, citazionismo sfrenato, omaggio cinefilo, svisceramento delle ossessioni del Tarantino spettatore, poi autore – sia chiaro, tutte osservazioni assolutamente fondate).
In due righe: la storia della vendetta di una donna a cui è stato fatto ciò che di peggio possa esistere tranne ucciderla, ma forse è anche peggio che Black Mamba (il nome in codice della Sposa, di cui non ci viene detto il nome vero) non muoia in quel dannato giorno, in quella piccola cappella di El Paso, Texas, dopo la carneficina operata dagli ex-compagni della Squadra Assassina Vipere Mortali, che le portano via marito e figlia (in grembo). E invece no, nonostante una pallottola in testa, La Sposa non muore, entra in un lunghissimo coma che dura più di quattro anni, si risveglia e scrive su un foglio la Lista della Morte come potrebbe scrivere la lista della spesa (della Sposa?), cosa assolutamente ironica. E si prefigge l’obiettivo finale, manco a dirlo, di uccidere Bill.
Trama semplicissima? Così pare. Ma l’obiettivo di Tarantino esula dalla semplice applicazione dell’estetica (sia narrativa che visuale) del pulp a un film a ben più alto costo. L’accentuata frammentazione temporale di Pulp Fiction è qui molto più blanda: di fatto, basterebbe montare i cinque capitoli del film (in totale sono nove, per gli altri quattro dovremo aspettare aprile 2004, quando uscirà Kill Bill Volume 2) nell’ordine 2-3-4-5-1, per ottenere sostanzialmente l’ordine cronologico degli eventi. E anche ciò che si vede, non è proprio, o non solo, un pulp allargato, principalmente a causa della grande, grandissima rilevanza occupata dai temi trasversali: la vendetta da consumare, l’onore da preservare, il nemico da annientare. Lungi dall’essere “niente di personale”, la violenza della Sposa furiosa è dettata da un ardente, personalissimo desiderio di vendetta. Tanto che, a differenza di quanto proprio Black Mamba dice di sé stessa («Sono la pietà, la compassione e il perdono che mi mancano, non la razionalità»), appena si presenta la (rara!) occasione di non uccidere, essa viene subito colta: il giovane terrorizzato, ultimo rimasto in piedi degli 88 Folli (l’esercito personale di O-Ren Ishii, interpretata da una bravissima Lucy Liu, facesse meno film inutili…), viene risparmiato, perché la sua morte non rappresenterebbe un avvicinamento all’obiettivo finale. Ma non si chieda l’impossibile a Black Mamba: l’odio la consuma, e i momenti in cui Uma Thurman raggiunge l’interpretazione perfetta sono proprio quei primissimi piani in cui, ai glaciali occhi ardenti della protagonista, si sovrappongono le immagini del ricordo del doloroso passato. A completare questi flash (davvero maestosi nella rievocazione di un punto zero del dolore, di un Male originale, di un’incancellabile sofferenza), un ossessivo sottofondo musicale.
Come avviene per tutti i film di Tarantino, una menzione speciale (e molto più articolata di quella che seguirà a breve) andrebbe rivolta alla colonna sonora: e qui non posso proprio non rifarmi a quel concetto già accennato da tutti, di summa di generi di serie b, perché è esattamente questo il nocciolo: se certo (e a buon diritto) si parla di meltin’ pot di cultura pop, splatter, western, pulp, kung fu (e chi più ne ha…) per il linguaggio del film, la stessa cosa vale per le musiche: dalla Bang Bang di Sonny Bono rivisitata da Nancy Sinatra a Morricone, dalla colonna sonora originale targata The RZA alle surf/garage/punk rocker giapponesi The 5.6.7.8’s, che sparano dello sporco rock’n’roll nella Casa delle Foglie Blu, teatro dello scontro finale (della «Resa dei conti», proprio come il titolo del capitolo… Bruceleeiano fino al midollo) di Volume 1.
Tornando al linguaggio del film: è bene premettere che il buon Quentin si concede davvero qualunque virtuosismo stilistico. Sono presenti (ma di nessuno viene fatto abuso, ogni particolare sembra misurato con il bilancino da spacciatore): il ralenti di scuola Peckinpah; il piano-sequenza (magistrale in particolare quello all’interno della Casa delle Foglie Blu, dove la macchina da presa sembra lucidamente folle nell’eseguire una danza, morbida quanto impressionante, attraverso le diverse stanze e attorno ai vari personaggi); i rabbiosi e opprimenti flashback istantanei di stampo Raimi; ma anche il lungo, drammaticissimo, estenuante flashback a cartoni animati che occupa quasi integralmente il capitolo 3 e che ci illumina sul perché O-Ren sia bastarda all’inverosimile come è.
È questo il punto del film in cui, attraverso la narrazione e la colonna sonora, Tarantino palesa maggiormente il suo debito stilistico/amore cinefilo per i western di Leone, in cui è quasi sempre un’esperienza dolorosa ai limiti dell’umano che sta alla base del percorso di vita del protagonista. E Tarantino afferma che il suo regista preferito è proprio Leone e che, pur considerandosi «piuttosto bravo», non crede che riuscirà a eguagliare mai la perfezione dell’ultima sequenza di Il buono, il brutto, il cattivo.
La falsità dell’autovalutazione che Tarantino si dà (credo che in cuor suo si giudichi ben più di «piuttosto bravo», e ne avrebbe tutte le ragioni) è mostrata dall’alto livello di autocitazionismo che pervade il film: se è superfluo parlare del look degli 88 Folli come variazione sul tema “iena”, altre autocitazioni potrebbero non essere così evidenti, come le inquadrature da dentro il bagagliaio (un must in Pulp Fiction e in Jackie Brown). In quest’ultimo titolo, la presenza di un personaggio che ci “presta” gli occhi da dentro la macchina, e che in Jackie Brown viene ucciso, è quasi replicata in Kill Bill, con Black Mamba che si porta nel bagagliaio Sofie Fatale (braccio destro di O-Ren), mutilata del braccio sinistro, prima di buttarla da una discesa da cui la mezzosangue franconipponica rotola in direzione di un pronto soccorso. E la soggettiva di Sofie che guarda il volto della Sposa coperto dal casco giallo (che fa pendant con la tuta attillata gialla, la moto gialla e le Onitsuka Tiger gialle) è di raro impatto. La lucidità della Sposa le suggerisce di mantenere in vita Sofie, perché possa raccontare tutto a Bill e perché possa dirgli che moriranno tutti. Ma l’autocitazione più bella è all’inizio del film: sentendosi parlare di «andare pari» dall’ex-compagna Vernita Green (interpretata da Vivica A. Fox), La Sposa le spiega cosa significherebbe «andare pari, pari veramente»: significherebbe l’estinzione dell’intero nucleo familiare di Vernita. E afferma Black Mamba: «Quel che si dice “quadratura”», e mentre lo dice disegna un quadrato in aria come quello che, nove anni prima, era stato tracciato dalla Mia Wallace di Pulp Fiction (sempre Uma Thurman).
Ma le scene da antologia non le posso riferire tutte, perché dovrei riferire tutto il film. Mi soffermo allora sulle tecniche metafilmiche che ci ricordano che stiamo assistendo a una fiction: lo stacchetto Our feature presentation all’inizio del film; la scelta (ma qui non so se la volontà sia di Tarantino) di affiancare ai titoli di testa la loro traduzione; infine, l’ironica parodia degli “inizi a effetto” dei film che cominciano con la classica citazione dalla Bibbia o simili: Tarantino opta per il volutamente banalissimo «La vendetta è un piatto che va servito freddo», spacciandolo per un «Antico proverbio Klingon» (i klingoniani sono un celebre popolo alieno di Star Trek).
Mi fermo. Battute che resteranno nella storia, diverse. Allora cito solo quella che mi è piaciuta di più: «Quella donna merita la sua vendetta. E noi meritiamo di morire», pronunciata da Budd, un Michael Madsen un po’ ingrassato che, di bianco vestito e con cappellaccio da cowboy, lotta contro il fantasma della dinoccolata e pazzoide iena Mr. Blonde. Grande, tra gli altri, anche il kung fu master Sonny Chiba, nella parte di Hattori Hanzo, colui che, nella migliore tradizione della classica struttura favolistica, procura il “mezzo magico” (la meravigliosa katana) alla protagonista perché ella possa raggiungere il suo scopo finale.
Kill Bill Volume 1 è un capolavoro.

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McA

Si registra sul Forum di Cremonapalloza in data 01/02/03 senza farlo apposta e senza sapere che quel momento costituirà davvero un nuovo «Via!» della sua vita.
Nel 2006 è tra i fondatori dell’Associazione Cremonapalloza, di cui ricopre da sempre il ruolo di Segretario.
Ama il cinema, il rock e la Cultura in generale.

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