L’incantatore

plant06

Robert Plant And The Strange Sensation – Live @ Alcatraz, Milano, 30/11/2005

Prima della Leggenda
Venerdì 18 novembre, alla Feltrinelli, Claudia mi consegna un pieghevole di The Great Rock’N’Roll Sinners (una serie di conferenze sui grandi del rock) e mi dice di guardarci dentro.
Apro.

ROBERT PLANT
And The Strange Sensation
ALCATRAZ Milano
30/11/2005 21:00

Chiudo.
Riapro.

ROBERT PLANT
And The Strange Sensation
ALCATRAZ Milano
30/11/2005 21:00

Richiudo.
Riapro.

ROBERT PLANT
And The Strange Sensation
ALCATRAZ Milano
30/11/2005 21:00

Richiudo.

Principio di svenimento.
Gambe tremanti, secchezza di fauci.
Mi rendo conto di aver appena ricevuto in regalo il biglietto magico.
Abbraccio e bacio la Donna (è il minimo).
Prima di uscire dalla Feltrinelli, butto un occhio agli scaffali e compro il libro Io, Dio, da regalare a Gio Vox in previsione del suo compleanno (il 21/12, palindromo).
Martedì 22 novembre esco con l’intenzione di comprarmi delle calzature nuove.
Alla Bata, in un mare di scarpe da 70 € da uomo serio e maturo (che quindi non fanno per me), trovo, all’ottimo prezzo di 40 €, un paio di stivali a punta, con ricamo e suola di vero cuoio. Non potevo chiedere di meglio. Decido che li inaugurerò al concerto. Il primo a cui li mostro, orgoglioso, è Ale (figo), che incrocio in Piazza Stradivari. Poi vado a casa e li fotografo.

Mercoledì 30 novembre è il gran giorno: al mattino mi fotografo di spalle, per documentare la massima lunghezza mai toccata dai miei capelli; al pomeriggio vado da Claudia, me li faccio tagliare un po’ (in modo da poter rockeggiare più agevolmente in serata, ma poi comunque andavano tagliati, gli ultimi quindici centimetri erano troppo rovinati), poi andiamo in centro e ci salutiamo.

Mi passa a prendere Gio Vox, che in macchina ha anche il cugino Ricky (rocker e figo), con il quale, ormai due anni e mezzo prima, eravamo andati a vedere gli Stones a San Siro. Ma c’è un’altra macchina (che ci precederà nel viaggio per Milano), che contiene Piero (padre di Ricky, nonché zio di Gio), Edo (altro cugino di Gio) e Mattia (amico di Ricky e Edo). Sei rocker alla riscossa.
Durante il viaggio la colonna sonora principale è The Razors Edge degli AC/DC (oltre alla valanga di cazzate che spariamo a turno, naturalmente): si fila abbastanza lisci fino alla tangenziale di Milano, poi scatta il dramma degli ingorghi e delle code, comincia a farsi davvero tardi quando riusciamo a entrare in città, lodo più volte Gio Vox, bravo a districarsi nell’impossibile e snervante traffico milanese, alla fine giungiamo in Via Valtellina. Grandi esultanze, Gallows Pole dei Led Zeppelin a manetta nello stereo di Gio, con i finestrini abbassati, per farci sentire da tutta la via, farcita di gente, bancarelle e bagarini.
Si parcheggia lì vicino, Dai che è tardi, si mangia un panino e si beve un po’ d’acqua, Dai che è tardi, ci si reca ai servizi del baretto lì a due metri, Dai che è tardi, si lasciano i cappotti in macchina, Dai che è tardi, vengo lodato per la mia tenuta da concerto, Dai che è tardi, si entra all’Alcatraz. Otto e venticinque, il concerto è previsto per le nove. Siamo arrivati comodi. Sta suonando il gruppo spalla, Th’ Legendary Shack*Shakers (nome fantastico, non c’è che dire), che propongono un rockabilly tiratissimo con influenze punk e country. Tipo gli Hormonauts, per intenderci.

La gente è presa bene, noi ci inseriamo verso la decima fila, decisamente laterali. Da lì comincerà il progressivo avvicinamento al palco. Quando gli opener finiscono (tra gli applausi) il loro concerto, siamo già in sesta-settima fila, ma ancora un po’ troppo laterali per i miei gusti. La densità umana aumenta, mentre il palco, vuoto, è illuminato da suggestive luci rosse.

La Leggenda
Alle 21:15 di mercoledì 30 novembre 2005 capisco cos’ha provato San Paolo sulla via di Damasco. Preceduto dagli Strange Sensation (Skin Tyson e Justin Adams alle chitarre, Billy Fuller al basso, Clive Deamer alla batteria e John Baggott alle tastiere), che hanno già attaccato il primo pezzo, Freedom Fries, dal nuovo album Mighty Rearranger, Robert Plant compare sul palco. Sta solo tenendo il tempo con il battito delle mani, non ha ancora aperto bocca, ma io sono già impazzito completamente. Quando, da lucido, a freddo, provo ad assumere un punto di vista obiettivo e mi riguardo in terza persona, vedo i miei occhi sbarrati, la mia bocca spalancata, sento le mie urla da ragazzina isterica, capisco di essere sembrato uno squilibrato completo. Ma la reazione, in un momento del genere, è genuina, per quanto esagerata. Mi sono mancate solo le lacrime (per un pelo).

Appena il Biondo inizia a cantare, addio. Lì passo direttamente al quarto cielo del Paradiso dantesco, senza fermate. Torno momentaneamente (e vagamente) sulla Terra per aiutare Ricky nella missione impossibile di srotolare il suo enorme cartello giallo, con una scritta nera, che però non dice Addio, Bocca di Rosa, con te se ne parte la primavera, dice Robert Plant = rock and roll. Sarà un metro e ottanta per un metro, lo sosteniamo in tre o quattro, poi la gente dietro giustamente vuole ucciderci perché ostacoliamo la visuale del palco, quindi il cartello viene abbassato, riarrotolato a caso e buttato davanti, al di là della transenna. Purtroppo, nessuno di quelli in prima fila fa lo sforzo minimo di lanciare lo striscione sul palco. In cuor nostro, speriamo che Robert l’abbia letto. Intanto sono ancora più davanti e ancora più centrale. Vedo Gio e Ricky vicino a me. La song è molto bella, si capisce perfettamente che il progetto Robert Plant And The Strange Sensation è solido, interessante, contaminato, musicalmente ce n’è.

A seguire, e un po’ a sorpresa, Seven & Seven Is, cover di un bellissimo pezzo dei Love, datato 1967. Semplicemente rock’n’roll allo stato puro, con una sequenza di accordi che a me dà i brividi, e la voce di Plant che non fa che nobilitare il tutto. Cover fedele all’originale, comunque.
Saluti: «It’s good to be here, back in Milano». Tutti urlano a squarciagola, io di più: «Robert!», «Robert, I love you!».
Poi, il delirio: Black Dog, da Led Zeppelin IV. Il pubblico reagisce con un boato trionfale, tutti cantano, soprattutto i celeberrimi vocalizzi («Ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ahhh…»). La canzone, come avverrà con tanti altri brani, è però ampiamente rivisitata: il ritmo è leggermente più blando, i suoni meno ruvidi e più avvolgenti, le tastiere fanno un bel lavoro, a rendere il pezzo ancor più d’atmosfera pensa Robert, accennando qualche passo di danza caraibica e schioccando le dita a tempo. Uno splendido cinquantasettenne, va bene, il tempo passa per tutti, ma Lui è un capellone biondo e sensuale quasi come nell’ætas aurea degli anni Settanta. Gio mi dirà poi di aver sentito delle ventenni riferirsi a Plant con frasi tipo «Che figo…», «Come si muove…» e via dicendo.
Succede che Plant chieda espressamente al pubblico di cantare, prima forte e va tutto bene, la gente risponde alla grande. Poi però chiede di cantare piano, quasi sottovoce, e tutti, ancora forte: «Ah ah!». Io non capisco.
Lui: «No, no…», e con le mani indica chiaramente di fare più piano. E tutti, ancora forte: «Ah ah!».
Mi altero leggermente.
«State zitti, merde!».
La gente si mette a cantare più piano, non so se per effetto del mio cortese invito. Gio mi dirà poi di avermi sentito, mentre mi rivolgevo gentilmente agli astanti delle prime file.
Quarta canzone in scaletta, la cover di Hey Joe di Jimi Hendrix, inclusa nel precedente album solista di Robert Plant, Dreamland. Mattia, maniaco di Hendrix, va in brodo di giuggiole. Qui il pezzo è completamente stravolto: strofa a metà della velocità, riff invece accelerato, mille suoni che si confondono, il Biondo dà il meglio di sé quanto a espressività vocale e a presenza scenica. Stupendo.
Grande emozione per Going To California, altra canzone dal quarto disco degli Zeppelin. La lunga introduzione alla chitarra acustica ne impedisce il riconoscimento immediato, ma quando comincia l’arpeggio iniziale c’è solo un mare di applausi a commentare. La voce di Plant si fa rarefatta e sognante, come nella versione originale su disco. Per quei cinque minuti, i trentaquattro anni di distanza non esistono. Da brividi, da lacrime.
Another Tribe fa parte del nuovo album, ed è puro etno rock. La strumentazione elettronica, seppur in evidenza, non oscura gli strumenti analogici: anzi, l’acustica e l’elettroacustica emergono quasi sempre, presto o tardi nell’arco del brano. Lui usa anche il tamburello. E poi c’è quella voce, incredibile, primordiale, che ti porta su altri pianeti, volente o nolente.

Due chiacchiere con Robert, che beve da una tazzona da tè (ma non so cosa stia bevendo). «Tomorrow, we’re gonna meet the President Blair…», detto con la faccia di chi deve andare controvoglia all’appuntamento istituzionale. Gli ululati di disappunto del pubblico coprono la frase successiva, di cui però sentiamo il finale: «… I hate this shit». Applausi. «It’s better, here». ’Na marea di applausi.
Si ritorna a visitare il 1971 di Led Zeppelin IV con Four Sticks, anche questa bellissima nella rivisitazione recente. Più tranquilla, intimista, stratificata nei suoni, con quell’«Oh, baby» irresistibile.
Let The Four Winds Blow è nuova, la ricordo poco, ma è il brano successivo che mi fa strippare del tutto: What Is And What Should Never Be da Led Zeppelin II. L’inconfondibile giro di basso mi manda in ebollizione, Plant canta con voce suadente, e tutti lo stiamo già seguendo, poi arriva il refrain duro, e la bolgia si fa incandescente. Ognuno, singolarmente, tende verso Robert, ammaliato dal suo magnetismo. Risultato: tutti schiacciati gli uni contro gli altri, con indicibili sofferenze di chi ha davanti la transenna. Ma è giusto così.
A questo punto del concerto mi trovo già in terza o quarta fila, davanti a Plant. Mi sono già sgolato quasi completamente, ma trovo un momento di relativo silenzio, nel quale raccolgo tutta la voce che mi è rimasta per urlare, più di quanto abbia fatto in tutta la mia vita: «Robert, look at me!».
Lui mi sente e sorride.
Non mi ha guardato. Probabilmente mi ha salvato la vita, se si fosse girato non avrei retto il suo sguardo e avrei esalato l’ultimo respiro lì, morendo, tenuto in piedi dagli altri del pubblico.
Ma mi ha sentito, la mia voce è arrivata a Robert Plant, questo è già molto.
Presenta la band, «’Cause we are The Strange Sensation». Sì, dai, non fare il modesto, ché lo sai che siamo tutti qui solo per te.
Un altro brano da Mighty Rearranger, Tin Pan Valley, poi si torna di nuovo al quarto, mistico e meraviglioso disco dei Led Zeppelin con la rocciosa When The Levee Breaks, con un riff da manuale dell’hard rock, e alla folk song dai tratti medievali Gallows Pole, da Led Zeppelin III: tutti cantano tutto, l’emozione si può quasi toccare. La band esce di scena sommersa da un’ovazione.
Al posto del consueto «Fuori, fuori» scatta ovviamente «Robert, Robert».
Il bis si apre con The Enchanter, del nuovo album, poi c’è un lungo intermezzo blues, con Robert che canta qualche verso, qua e là, ogni tanto. Ma quando mi arrivano alle orecchie le parole «I’ve been misusin’» non ho più dubbi, è…
Whole Lotta Love!
Caos: tutti si mettono a saltare e a cantare, le vibrazioni hard del super classico di Led Zeppelin II contagiano anche i muri. Orgia sonora, delirio rock’n’roll, chiamatelo come volete. Descrivere le sensazioni che ho/abbiamo provato è impossibile. Quando la canzone è finita e i sei musicisti si riuniscono per l’inchino collettivo al pubblico, l’adrenalina è ancora a mille. Una delle emozioni più grandi della mia vita.

Dopo la Leggenda
Si accendono le luci, parte la musica dell’Alcatraz.
Abbraccio fortissimo Ricky, vicino a me per quasi tutto il concerto.
Ripesco Gio.
Abbraccio fortissimo pure Gio.
Ritroviamo Mattia, Edo e Piero.
Ci abbracciamo fortissimo tutti quanti.
Ci sarebbe stata meno unione tra sei fratelli che si ritrovano a casa dopo essere tutti sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale.
Gio incontra casualmente un po’ di gente che conosce, tra cui un compagno di università che è riuscito ad accaparrarsi una delle setlist che stavano sul palco. Giorni dopo ne farà una fotocopia a Gio. Anch’io me la sono fatta passare, e ora è patrimonio dell’umanità.

Sbalordito e confuso, vago per l’Alcatraz in cerca di un dito indice che prema il pulsante della mia macchina fotografica per immortalarci: la scelta ricade su un quarantenne con la maglietta dei Guns N’ Roses. Flash.

Il posto si sta svuotando; intravedo qualche Rocker Supremo, dagli street metalheads ai rocker anni Cinquanta brillantinati. Magliette dei Led Zeppelin a iosa, naturale.
Usciamo con calma e ci dirigiamo verso le macchine, telefonata a Freddie (il rocker di Palermo con cui io e Gio avevamo visto i Darkness quasi due anni fa), commenti sul concerto con Ricky, Edo e Mattia… Lasciamo Milano.
Sulla via del ritorno, ci sta la pausa in Autogrill. Gio attacca bottone con la barista.
«Siamo di ritorno dal concerto di Robert Plant».
«Ah, il… Aspetta… Bassista… Dei Deep Purple!».
Vabbè, ragazza, buonanotte.
Scambio sulle due automobili: Edo in macchina con me e Gio, Ricky con suo papà e Mattia.
Ci salutiamo con la reciproca promessa di andare insieme al prossimo grande concerto.
Tornando a Cremona, faccio un video con la macchina fotografica: riprendo un po’ la strada, un po’ Gio che guida, un po’ Edo sui sedili posteriori, un po’ me stesso. Diciamo qualche altra idiozia, tanto per chiudere al meglio questa memorabile serata.
Rientro in casa e mi ficco a letto, ma non riesco a dormire, perché continuo a rivivere mentalmente il film del concerto. Forse, quella notte, Robert Plant l’incantatore si è insinuato nei miei sogni.

Riguardo l' autore

McA

Si registra sul Forum di Cremonapalloza in data 01/02/03 senza farlo apposta e senza sapere che quel momento costituirà davvero un nuovo «Via!» della sua vita.
Nel 2006 è tra i fondatori dell’Associazione Cremonapalloza, di cui ricopre da sempre il ruolo di Segretario.
Ama il cinema, il rock e la Cultura in generale.

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